Una delle regole che governa il mondo del linguaggio è strettamente connessa alle proprietà del cervello, il quale è il direttore delle principali e maggiori funzionalità del nostro apparato psicofisico oltre a quelle linguistiche. Questa regola cita: se non le usi, le perdi in riferimento a tutte le funzioni che il cervello stesso innesca o è in grado di attivare. Di fatto il linguaggio sottostà ad una specifica fisiologia che, se ben congeniata, conosciuta ed utilizzata, permette ad un individuo di imprimere un’impronta significativa alla padronanza delle lingue.
Nel seguente articolo verrà trattata tale questione in maniera più approfondita soprattutto per quel che concerne la fisiologia del linguaggio in termini di acquisizione linguistica ed apprendimento. Perché imparare le lingue straniere può rivelarsi facile e da un certo punto di vista entusiasmante, ma la questione è ben più complessa e ha risvolti, non da ultimo, scientifici. Di fatto, quello che segue l’acquisizione di una lingua e che è molto più importante dell’imparare ex novo una disciplina è mantenerne, migliorarne e arricchirne la padronanza nel tempo in maniera consapevole; il che è possibile per mezzo dell’allenamento costante, intelligente ed efficace di quelle funzionalità che se non vengono utilizzate tendono al declino, e quindi a scomparire. Questo processo di allenamento altro non è che il processo di apprendimento.

Se non lo usi lo perdi: il cervello è la centralina del nostro apparato psicofisico. Se non lo teniamo allenato tende all’entropia, ovvero al caos. Il che si traduce nel perdere quello che non utilizza in favore di ciò che viene utilizzato con più frequenza!
Ci sono diverse motivazioni che spingono una persona ad imparare una lingua straniera: una passione per la cultura di quel paese, una certa curiosità che avvicina a quei luoghi dove quella lingua viene parlata, o ancora un amore, la vita lavorativa che spinge ai contatti con l’esotico, e quant’altro. E così, è nei modi più strani che iniziano le storie con le lingue straniere. Storie di chi si trasferisce in paesi esteri per non tornare più in patria, chi invece cerca un equilibrio o un compromesso tra le proprie radici e la novità del luogo in cui si trova a vivere. Queste storie possono essere contrassegnate da bisogno, piacere oppure dovere; sta di fatto che approcciarsi ad una lingua straniera è molto più che uno studio teorico di regole sul funzionamento grammaticale e morfo-sintattico di fonemi diversi (e cioè la cosiddetta “parte superficiale” di una lingua). Entrare a contatto con una lingua straniera significa aprirsi ad un mondo di nuove concezioni sulla vita, nonché entrare nel suo nucleo più interno. Nucleo nel quale convergono affettività, cultura e personalità, le quali interagendo tra di esse creano all’interno del soggetto un campo fertile per i saperi linguistici i quali a loro volta sono, per usare la frase del linguista italiano Balboni (che si trova all’interno dal volume da lui scritto Imparare le lingue straniere, edizioni Marsilio), strumenti di azione sociale calata in una cultura, in un modo di vivere, in una serie di valori di riferimento. Il nucleo di una cultura altro non è che la dimensione (inter)culturale della competenza comunicativa, la quale, assieme a quella linguistica, conduce un soggetto ad utilizzare con appropriatezza la lingua allo scopo di COMUNICARE.
Dunque, poiché nel percorso di studio di una lingua si ha a che vedere con queste due principali competenze, ovvero quella linguistica e quella comunicativa, emerge la fondamentale differenza tra acquisizione e apprendimento, ovvero due fenomeni molto importanti governati dal cervello/psiche con tutte le loro componenti, da quella affettiva a quella logico-razionale, passando per i fattori mnemonici e mnestici. Tale differenza rientra nei concetti di primaria importanza, nonché imprescindibile per tutti gli studiosi di lingue straniere, linguisti, insegnanti ed esperti del settore. Acquisizione e apprendimento sono due facce della stessa medaglia; diverse eppur entrambe necessarie per fare propria una lingua. Nello specifico, a riguardo è illuminante l’ipotesi del linguista e ricercatore Krashen, che getta luce sulla questione in quanto secondo lo studioso l’acquisizione è un fenomeno che avviene a livello implicito e consiste nella comprensione intuitiva dell’input recepito. Essa si colloca in profondità (pertanto diventa stabile nel tempo), in una zona molto personale del soggetto apprendente. L’apprendimento, sempre secondo Krashen, invece è di matrice razionale: è un processo di breve durata, conscio e rivolto alla forma linguistica. Inoltre, nel caso specifico delle lingue straniere, l’apprendimento annovera al proprio interno caratteristiche quali la socialità, la costruttività e la cooperatività, nonché qualità influenzate dalla natura personale dell’apprendente. Di conseguenza, oltre a risultare molto improbabile l’efficacia di un apprendimento in solitudine delle lingue straniere, in quanto verrebbe meno lo scopo primario del loro utilizzo (e cioè la necessità di comunicare), c’è il fattore “personalità” da tenere in considerazione in corso d’opera. Infatti nell’acquisizione sono favoriti maggiormente coloro che manifestano un approccio olistico, le personalità più espansive ed aperte, mentre coloro che sono favoriti nell’apprendimento sono tutti quegli individui che si focalizzano sulla parte più razionale del linguaggio. A livello linguistico, tuttavia, il fatto di pendere a favore di una o dell’altra modalità risulta limitante e peraltro svantaggioso per l’apprendente. In effetti, se l’acquisizione si colloca su un piano più intimo ed intuitivo, introspettivo e meno esplicito, l’apprendimento ne è l’esatto opposto (opposto ma non escludente!) in quanto si avvale delle capacità logiche che, se affiancate sensatamente all’acquisizione, la rendono consapevole. L’apprendimento è razionale e pertanto può fungere da monitor, ovvero uno strumento per l’elaborazione linguistica consapevole. A tal proposito dunque acquisizione e apprendimento sono due elementi inscindibili che si accompagnano l’una all’altro come due metà di una mela. Acquisizione senza apprendimento diventa pura perspicacia lasciata al caso, mentre l’apprendimento senza acquisizione si tramuta in una piatta enumerazione di nozioni fini a se stesse e senza alcuna applicazione possibile. L’acquisizione con l’apprendimento apre le porte di un apprendimento consapevole nel quale i successi ed i progressi che si incontrano non sono un caso; anzi, proprio grazie a questo binomio in cui gli opposti sono complementari il discente diventa causativo nei confronti dei propri successi.
Se colleghiamo quanto appena affermato con il titolo dell’articolo, se non lo usi, lo perdi, e cioè se ci si dimentica di utilizzare una modalità in favore di un’altra quello che ne deriva nel lungo periodo sarà proprio la perdita di contatto con quella modalità meno utilizzata, la quale, inabissandosi sempre più nei meandri di psiche e cervello, viene poi abbandonata a vantaggio di ciò che ai fini della sopravvivenza si usa più di frequente. Il cervello infatti funziona secondo due logiche: una è quella dell’ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, l’altra è in ragione della sopravvivenza.
A tal proposito, in riferimento allo studio di una lingua ha senso parlare di educazione linguistica, in quanto lo studio di una lingua straniera per essere completo deve necessariamente tenere conto del contesto nel quale essa è nata e cresciuta (ovvero della dimensione culturale). Parlare di educazione linguistica agevola nel processo di apprendimento linguistico perché porta a contatto il discente con l’essenza e il background nel quale la lingua è nata, ampliandone la comprensione, amplificandone i collegamenti e quindi rendendolo in grado di attingere ad altri strumenti cerebrali a propria disposizione, non da ultimo aprendogli nuove possibilità di pensiero e modus vivendi. Di fatto non è possibile estrapolare una lingua ed adattarla al contesto che non le è proprio: è come applicare uno snaturamento. L’apprendimento effettuato solo sui libri, guardando dei film, ascoltando canzoni è si efficace e di tutto rispetto, ma non basta. E’ l’esperienza sul campo che nel settore delle lingue funge da banco di prova per l’apprendimento, l’acquisizione e l’educazione; e questo proprio perché l’esperienza offre all’individuo la possibilità di mettersi in gioco, provare e sperimentare sul campo ciò che ha acquisito venendo al contempo educato dall’esperienza stessa. Il contatto diretto con una persona straniera pone il discente di fronte alla realtà della lingua, fatta non solo di parole bensì soprattutto di persone e cultura. L’acquisizione di cui si è parlato in precedenza assume un ruolo fondamentale in tutto ciò in quanto viene potenziata, rinnovata, avallata dall’esperienza e dal continuo mettersi in gioco. Interfacciarsi direttamente con un individuo che parla una lingua straniera richiede, prima di tutto, la capacità di esprimersi, ovvero esprimere dei concetti già interiorizzati in maniera tale da farsi capire (quel che si dice con l’espressione “effettuare una comunicazione felice”). Ad esempio, se una persona ha veramente acquisito la capacità di dare e richiedere indicazioni stradali in lingua straniera e si trova in condizioni di necessità nel luogo in cui quella lingua viene parlata, sarà quanto acquisito ad aprirgli un varco comunicativo con un abitante del luogo in grado di fornirgli le informazioni che necessita. Varco la cui apertura viene influenzata dalla personalità dell’apprendente: infatti saranno proprio la personalità e l’attitudine, nonché il modo di essere, a fare la differenza all’interno dell’esperienza comunicativa rendendola piacevole, agevole (come può verificarsi nel caso di soggetti fluidi nella comunicazione o che non si danno per vinti di fronte ad un errore) oppure difficoltosa e spiacevole (come può avvenire nel caso di soggetti che faticano ad esprimersi o che manifestano attitudini rinunciatarie). Ad ogni modo, anche riguardo al fattore comunicativo vale quanto detto prima, e cioè se non lo usi, lo perdi in quanto se non si tiene allenata la comunicazione, soprattutto imparando dagli errori (e quindi con un’attitudine mentale di proattività), la difficoltà si concretizza, stagnandosi nel problema e nell’incapacità, e portando il soggetto apprendente a voler evitare situazioni che lo espongono a tale esperienza sino a privarsi di fatto della possibilità di acquisizione linguistica e culturale.
E’ anche vero che la sola acquisizione, ovvero il fatto di aver interiorizzato delle espressioni, modi di dire, frasi per farsi capire in una lingua è sempre centrale, come in questo esempio. Ma, come detto prima, non basta. Non basta perché per proseguire nello studio di una lingua essa va affiancata all’apprendimento. Quest’ultimo è il fattore razionale di una lingua: è grazie ad esso che una persona riesce a costruire frasi di senso compiuto, categorizzare una lingua, riflettere su di essa per quello che concerne tutti gli aspetti relativi alla forma e, in parte, gli usi. Eppure, come quanto affermato per l’acquisizione, il solo apprendimento non è sufficiente. Occorre calarlo nell’esperienza e affiancarlo all’acquisizione di modo da rendere consapevole lo studio di una lingua. Conoscere una situazione, l’adeguatezza di registro e culturale con cui ci si rivolge ad uno straniero ed avere gli strumenti linguistici per esprimersi sono il binomio essenziale per comunicare con la lingua e realizzare quelle capacità individuate e riassunte dallo stesso Balboni in:
– SAPER FARE LINGUA: e cioè padroneggiare le 4 abilità linguistiche di comprensione orale e scritta, produzione orale e scritta;
– SAPERE LA LINGUA: si tratta di competenze linguistiche quali pronuncia, ortografia, lessico, etc.;
– SAPER FARE CON LA LINGUA: è la capacità di utilizzare la lingua come strumento di azione e la quale include la competenza funzionale, pragmatica e socio-culturale;
– SAPER INTEGRARE LA LINGUA CON I LINGUAGGI NON VERBALI: si tratta di una competenza extra-linguistica, ovvero la consapevolezza dei linguaggi gestuali, oggettuali, prossemici, vestemici.
Per concludere ripetiamo come un mantra il leitmotiv di questo articolo: se non lo usi lo perdi. Non da ultimo in merito a questa frase vi sono interessanti riferimenti di natura scientifica all’interno del libro del neuropsichiatra Franco Fabbro, Il cervello bilingue, in riferimento ai suoi studi condotti negli Stati Uniti. All’interno del capitolo 2 lo specialista scrive: ” la capacità di discriminare e categorizzare i suoni complessi di una lingua dipende dalla conservazione della capacità di attivare particolari strutture del cervello che vengono stimolate con l’esposizione ai suoni di una lingua durante l’infanzia. Una mancata esposizione a certi suoni complessi, non presenti nella propria lingua madre, determina un decadimento di alcune strutture nervose atte a discriminare tali suoni. Ciò significa che entro il primo anno di vita gli esseri umani sono potenzialmente pronti a discriminare e apprendere tutte le lingue umane e con la crescita perdono gradualmente la possibilità di acquisire con facilità e in modo informale altre lingue” . Da questa affermazione si evince che da bambini abbiamo innumerevoli funzionalità cerebrali che dopo pochissimo tempo dalla nascita perdiamo perché restano inutilizzate: si tratta pertanto di una cernita di caratteristiche funzionale all’evoluzione e pesantemente condizionata dal fattore cultura che indirizza la scelta. Allo stesso modo il cervello funziona come qualsiasi cosa materiale a cui ci troviamo di fronte: se non viene curato, allenato e portato nella direzione in cui auspichiamo vada, allora si ritrova alla mercé dell’entropia. Caos e disordine prendono il sopravvento su di esso se non si attiva lo sviluppo di quelle capacità di agire per indirizzare noi stessi e lo sviluppo delle nostre capacità verso la meta cosciente della nostra evoluzione. Questa frase di Fabbro, inoltre, ci fa comprendere come il modo di acquisizione cambia con l’avanzare dell’età il quale ha ripercussioni fisiologiche sul nostro apparato psicofisico, ma che comunque dipende da ciò con cui lo “alimentiamo” e dal trattamento che gli riserviamo. Perché un apparato psicofisico anziano è vero, non può competere con quello di un giovane nel pieno delle sue forze in termini di quantità di capacità in potenza, ma se trattato in maniera rispettosa ed intelligente può giungere a fare la differenza in termini di qualità!
In sostanza la peculiarità di una lingua consiste nel conoscerla e nel frequentarla, proprio come si fa con una persona a noi cara. Per non perderla e per fare in modo di non dimenticarla, dato che questo è il destino di tutto ciò nei confronti del quale la cura viene a mancare, occorre mettere in atto tutti quegli accorgimenti funzionali ad integrarla all’interno dei saperi pregressi. Perché il linguaggio sottostà ad una vera e propria fisiologia: quella dell’uomo e del suo apparato psicofisico, soggetto, come qualsivoglia elemento materiale, all’azione di tempo e spazio, e quindi all’azione dell’entropia. Se lasciato a se stesso.
Staff – Parole Vive