Con il termine poliglottismo (noto anche come poliglossia), dal greco πολύγλωττος (polýglōttos,) composto da poly- ‘poli-‘ e glṓtta ‘lingua’, si intende quell’abilità di padroneggiare più lingue, nello specifico dalle cinque in poi. Al giorno d’oggi, rispetto anche solo a qualche decennio fa, le possibilità di entrare in contatto con chi parla almeno una lingua diversa dalla propria lingua madre sono diventate una certezza. Per questo motivo sapere più lingue straniere apre le porte del mondo: le porte del nostro pianeta.
Le cose stanno davvero in questo modo? Cosa significa in realtà essere poliglotti e conoscere più lingue straniere? Cosa comporta l’approccio ad altre lingue diverse da quella natìa? Qual è il ruolo della cultura in relazione ad una lingua? Ed, in definitiva, perché è importante essere poliglotti oggi?
I poliglotti richiamano alla mente la figura del camaleonte. Questo animale è capace di mimetizzarsi nell’ambiente nel quale è immerso cambiando il colore della pelle. Allo stesso modo un poliglotta è un individuo in grado di adattarsi al meglio alle varie situazioni e ai vari contesti ai quali si trova di fronte perché ha fatto propria quella cultura nella cui lingua decide di esprimersi.
Un grande testo di riferimento per tutti i linguisti, nonché per alcuni medici (neuropsichiatri e neuropsicologi), Il cervello bilingue di Franco Fabbro è il primo testo completo italiano che tratta in maniera approfondita e precisa il fenomeno dell’apprendimento delle lingue dal punto di vista della scienza del cervello: la neurolinguistica. E’ interessante leggere l’incipit del libro che contiene una citazione del sociologo e filosofo austriaco Paul K. Feyerabend proprio in merito al poliglottismo: “il miglior espediente protettivo contro l’influenza di una particolare lingua è la pratica del bilinguismo o della poliglossia… Un bambino dovrebbe crescere conoscendo non solo diverse lingue, ma anche diversi miti, inclusi quelli della scienza“. Innanzitutto va fatto un distinguo tra il fenomeno del bilinguismo e il poliglottismo. Per quanto per anni si sia creduto che il bilingue fosse una rarità va invece riconosciuto che, stando alle indagini dettagliate di Fabbro, almeno più della metà della popolazione mondiale è bilingue in quanto il bilinguismo si applica alla conoscenza di una lingua ed un dialetto oppure due lingue diverse, o ancora due dialetti che, lungi da ogni pregiudizio, sono in tutto e per tutto vere e proprie lingue. Capite bene che secondo questa visione realistica e scientifica il poliglottismo, ovvero la conoscenza di lingue in numero superiore a quattro, non è poi da considerarsi un miraggio, soprattutto ai nostri giorni.
Ma veniamo alla citazione di Feyerabend sul poliglottismo: l’ho adottata in quanto è di sostegno alla tesi che essere poliglotti amplia lo spettro di possibilità non solo fisiologiche, ma anche culturali. Dal punto di vista fisiologico, infatti, padroneggiare più lingue oltre che arricchire l’individuo di nuovi e diversi repertori di pensiero legati ad una specifica lingua, permette lo sviluppo e l’attivazione di nuove e più sofisticate funzioni del cervello. Ad esempio, stando sempre ai dati riportati all’interno del volume di Fabbro, un individuo posto in condizione di traduzione simultanea (e quindi già in presenza di bilinguismo) dovrà attivare entrambi gli emisferi cerebrali in quella particolare situazione in cui gli viene richiesto di produrre e comprendere simultaneamente in lingue diverse. Ed, in definitiva, il fatto di attivare entrambi gli emisferi porta ad addestrarsi alla facoltà di produrre collegamenti, evolversi, crescere, unire logica ed istinto, porre in connessione razionalità e spiritualità, vecchio e nuovo, relativo ed assoluto, attivare interazioni tra mondo esteriore ed interiore.
Tuttavia, il fatto di conoscere più lingue straniere pur costituendo un arricchimento non risulta sinonimo di padroneggiare quelle stesse lingue; e la padronanza è la caratteristica indispensabile in caso di poliglossia/poliglottismo. Padroneggiare una lingua è imprescindibile dalla cultura nella e dalla quale quella lingua è nata. A questo proposito il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue (che in sostanza è uno schema di riferimento per la valutazione delle conoscenze in merito ad una lingua straniera sul territorio europeo) ha elaborato dei parametri per fornire un’accurata valutazione della padronanza linguistica, i quali considerano a pieno titolo il contesto situazionale E la relativa cultura. Non a caso all’interno dei parametri stabiliti per valutare le competenze linguistiche di un soggetto si parla di usare la lingua in modo adeguato allo scopo: in tal senso si ha a che fare con l’adeguatezza al contesto e l’appropriatezza linguistica, le quali non possono prescindere da scelte basate sul fatto di sapere una lingua dal punto di vista morfologico e funzionale, ma soprattutto dal fatto di conoscere il relativo repertorio culturale in merito ai vari ambiti della vita (lavoro, famiglia, società, religione, usanze, etc.). Lingua e cultura pertanto vanno a braccetto: questo perché la cultura è la culla della lingua. Con ciò ci si riferisce al fatto che da un determinato modo di vivere ne deriva automaticamente ed inscindibilmente un modo di esprimersi; come si spiegherebbe altrimenti la distinzione che in italiano si opera tra “ti voglio bene” e “ti amo”, assente ad esempio in inglese, ove vige l’onnipresente verbo “to love”? O ancora come si spiega la preferenza d’uso di forme impersonali nel repertorio linguistico della lingua russa, rispetto a lingue come l’italiano, lo spagnolo o il tedesco il cui uso è invece più limitato al contesto/registro? La risposta più semplice è che le lingue hanno ciascuna una propria diversità. Questa diversità, a sua volta, deriva dagli specifici contesti culturali nei quali quella lingua è nata. Addirittura, in alcuni repertori culturali del linguaggio corporeo ciò che in una cultura equivale ad un “non so”, in un’altra equivale ad un “non mi interessa”: di nuovo si fa riferimento alle distinzioni tra il russo, nel quale un’ alzata di spalle significa non sapere, mentre in italiano ha un significato totalmente diverso. Lingua e cultura sono pertanto inscindibilmente legate e proprio a tal proposito è ragionevole considerare che lo sviluppo di una a discapito dell’altra crei una condizione di svantaggio. In sostanza riguardo ad una lingua ed alla relativa cultura è sempre meglio conoscere che ignorare perché è la conoscenza che fa la differenza. Già, ma di quale differenza si tratta, se poi manca la capacità di attingere a quella conoscenza della quale si è entrati in possesso? E’ a questo punto che termina il territorio della conoscenza e che si entra in quello della padronanza linguistica…
I dati alla mano dei quali la neurolinguistica dispone a tal proposito corredano in maniera impeccabile il testo di Fabbro citato in precedenza Il cervello bilingue. Un dato interessante che viene sottoposto al lettore ha a che fare con il fatto che l’area cerebrale preposta allo sviluppo del linguaggio è la stessa collegata all’affettività; cosa ne possiamo dedurre? Innanzitutto che la lingua è organizzata anche sensorialmente e tangibilmente dai centri del linguaggio presenti nel cervello, gli stessi che regolano l’affettività. Già questo dato basta, di per sé a farci capire quanto la cultura di appartenenza o quella acquisita abbiano a che fare con la nostra comprensione dell’altro, ossia nel portare l’altro dentro di noi, nell’accoglierlo, viverlo e fino a che punto possiamo farlo. La cultura nella quale si nasce e talvolta quella nella quale ci si inserisce accoglie e forgia l’individuo nella mente, in primis, attraverso la mentalità e l’educazione trasmesse dapprima in famiglia (nucleo affettivo) e poi a scuola (primo contatto con il mondo esterno). Quella stessa cultura madre, nonché in certi casi quella acquisita, dopo essersi sedimentata ed interiorizzata, giunge ad influenzare l’individuo nelle scelte e nel modo di pensare: sostanzialmente l’individuo all’interno di una cultura non ha scelta, se non quella di fare, pensare e ragionare come fanno tutti attorno a lui portatori della stessa tradizione per motivi di sopravvivenza. Ma quando si verifica il contatto con una cultura diversa, ecco apparire i problemi/opportunità: mentre cadono le certezze inerenti l’esistenza del modo di pensare vigente sino a quel momento, fanno capolino i confronti e i tentativi di paragone. Si affacciano giudizi di ogni tipo, inevitabili sempre per motivi di sopravvivenza. Perché se la cultura forgia l’identità dell’individuo, allo stesso modo la lingua ne è espressione. E capire, comprendere, fare propria una lingua implica il superamento di questo scoglio; comporta l’accoglimento di questa opportunità. Integrare gli emisferi, integrare le culture, integrare al proprio interno la poliedricità della vita della quale ogni lingua è una piccola ma significativa espressione; il poliglottismo è farsi da parte con le proprie convinzioni e condizionamenti per lasciare spazio alla vita di altre culture al proprio interno, essere poliglotti significa arginare la preponderanza di una lingua quando questa si pone a discapito delle altre, per poter accogliere con generosità altri modi di essere, di esprimersi, di vivere. Nel poliglottismo capita che una lingua resti la preferita, ma ciò che fa la differenza è l’assenza di discriminazione per le altre. E’ questo il tipo di arricchimento di cui il poliglottismo si fa portatore e del quale si parla in questa sede.
Se esistesse una figura zoologica in grado di raffigurare appieno la figura del poliglotta questa sarebbe senz’altro quella del camaleonte. La caratteristica speciale di questa creatura è che essa cambia colore in funzione della propria sopravvivenza, sia che questo significhi mimetizzarsi con l’ambiente circostante, sia che ciò si traduca nel farsi notare per la propria diversità. Essere bilingui e a maggior ragione poliglotti è un po’ come adattarsi e mimetizzarsi all’interno di una cultura, tanto che non ci si distingue da un madrelingua, pur potendo farlo. Questa mimetizzazione, tuttavia, a livello umano contiene un’ulteriore caratteristica rispetto al fenomeno presente nel mondo animale: essa infatti per gli uomini implica anche il coinvolgimento delle componente affettiva e psichica. Se l’animale si mimetizza per ragioni di sopravvivenza e lo fa in ragione della paura, dello stress, dell’aggressività o del benessere che in quel momento sperimenta, così come di altre condizioni a lui esterne (clima e luce), il poliglotta decide di mimetizzarsi in contesti linguistici e culturali per giungere più vicino all’altro. Ed essere poliglotti apporta molti vantaggi, soprattutto oggi in un mondo in cui le persone sono sempre più in movimento da un continente all’altro ed in relazione tra di loro. Uno di questi vantaggi si rivela in termini di comprensione e arricchimento culturale. Quando sapere conduce a capire, allora il fatto di capire può incrementare in una persona ulteriori comprensioni sul funzionamento di un mondo e dotarla di una mentalità diversi dalla propria. Del resto comprendere significa portare dentro si sé, accogliere al proprio interno, contenere. Nello specifico all’interno del volume di Fabbro emerge in merito a ciò una interessante contrapposizione tra i concetti di arricchimento e barriera dal punto di vista genetico. Questo tipo di arricchimento in effetti talvolta (e negli ultimi decenni più che mai) giunge a coinvolgere anche la fisiologia come conseguenza della mescolanza di razze e delle relative culture: insomma, un modo per sentenziare che l’arricchimento culturale si è esteso anche alla genetica. Non a caso nel libro viene posta la questione riguardante la vera funzione di una lingua e quindi se essa sia effettivamente funzionale a garantire la comunicazione tra individui oppure a separare un gruppo dagli altri. L’esistenza di diverse lingue ci fornisce uno spettro di diverse realtà e per questo motivo un arricchimento. Ma l’arricchimento resta comunque un fenomeno che arriva dopo l’accoglienza di ciò che è diverso. Altrimenti la lingua risulta funzionale a separare, a creare una barriera, a far permanere la diversità senza possibilità per un incontro e un dialogo con l’altro da noi.
Se poi consideriamo il poliglottismo in termini di ampliamento dei propri orizzonti ciò può però comportare anche un rischio. Reale o fittizio che sia, esso consiste nel perdere le proprie radici per proiettarsi nella e dentro l’altra cultura: in tal caso non si tratta di accogliere l’altra lingua, ma del dimenticarsi della propria origine e pendere in favore del nuovo. Resta da chiedersi se sia davvero così. In effetti il rischio può esserci, ma se la propria identità è ben salda, il fatto di padroneggiare più lingue straniere e attingere a proprio piacimento alla relativa cultura non resta che un arricchimento del proprio modo di essere, del proprio repertorio linguistico e culturale stesso: un’espansione del proprio cervello, ed, in sostanza un’espansione di sé. Pur mantenendo le differenze viste e percepite, e a maggior ragione aiutando in questo. Padroneggiare più lingue con la consapevolezza di ciò che ci appartiene e ciò che invece non ci appartiene ci dona una maggiore consapevolezza della nostra identità. Attingere a e conoscere ciò che è proibito in una cultura e ciò che è tollerato, e comportarsi di conseguenza, oltre a migliorare i rapporti con l’altro da noi, agevola una integrazione, permette l’instaurarsi di un vero incontro nella relazione, una conoscenza senza precedenti del mondo e dell’uomo. Più lingue si riescono a padroneggiare e a maggiori comprensioni è possibile attingere. Insomma si tratta di una quantità che ad un certo punto si trasforma in qualità, ammesso e concesso che ci si renda consapevoli di questo processo. Perché il poliglottismo resta ben più di un fenomeno esclusivamente linguistico; esso coinvolge la personalità, la mente, la fisiologia, la cultura e l’individuo in tutta la sua globalità di essere umano.
Essere poliglotti oggi è di enorme importanza, soprattutto per tutti i vantaggi che apporta in termini di qualità della relazione con l’altro da noi. Va però precisato che il fatto di capire da un contesto ciò che viene detto si chiama perspicacia, da non confondere con la padronanza linguistica. La perspicacia è un’ottima qualità che agevola ed è imprescindibile dall’apprendimento linguistico, ma la padronanza è quella dote che entra in vostro possesso e che vi consente la sicurezza di poter aggiungere alla vostra vita un bagaglio di nozioni, collegamenti e visioni in più. Dopotutto una lingua è accompagnata dalla cultura che l’ha creata, e questo non va dimenticato ma anzi utilizzato come strumento per progredire. Soprattutto a livello umano.
Staff – Parole Vive